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Fatto un giornale, se ne fa un altro
martedì, 25 maggio 2010Innazitutto, un sentito ringraziamento a quanti hanno organizzato la prima giornata italiana della Society for News Design. Traduttori a parte – ma grazie al Cielo da queste parti si è potuto seguire l’inglese senza essere sottoposti alla involontaria comicità che faceva ogni tanto ridere la platea – l’organizzazione è stata splendida. Un paio di pause in più, forse, avrebbero reso più semplice seguire la lunga giornata di lavori ma è roba da poco.
Grazie quindi a chi si è speso in prima persona e grazie a chi ha preso aerei e treni per raccontare come fa un giornale, l’infografica e – perché no, vista l’insistenza – la differenza che corre fra un ‘normale’ designer e un visual journalist: e che atteggiamento si debba avere quando si disegna un mezzo d’informazione. Grazie a chi ci ha raccontato la sua storia di successo e a chi ha suggerito di lottare quotidianamente per portare il mercato italiano al livello di quello europeo e internazionale.
Già, l’Italia. Ancora una volta descritta come un Paese poco più che sottosviluppato, in cui una cultura conservatrice regna nelle direzioni dei giornali. Effettivamente, non c’era la presenza di un solo direttore di quotidiano. Né c’era un editore. A questo, sono certo, si riparerà nel tempo – se la SND italiana saprà farsi vera associazione, forte di intelligenze e numeri, uscendo dalla fase carbonara dell’«associato italiano a una organizzazione straniera».
Il dato, però, è comunque rilevante, come rilevante il senso di meraviglia, di stupore dei partecipanti alle presentazioni degli ospiti stranieri: davvero nelle altre redazioni funziona così? Davvero avete trenta designer che fanno solo infografica? Davvero potete stampare quei giornali tanto belli?
Peccato, come si è detto nell’intervento del caro Paolo di Liberazione e ancora di più nella hall, sul marciapiede, fra le file di sedie, fra noi che stringevamo mani, facevamo conoscenza, scambiavamo esperienze, che la situazione quotidiana sia ben più triste: quotidiani che si reggono sul lavoro di due grafici; altri – come ha replicato l’ottimo Valeri – che con trenta giornalisti impiegano, e part-time, un solo fotografo. Senza voler insistere, per noia e rassegnazione, sulla crassa ignoranza di chi dirige una testata e non sa di marketing né se ne preoccupa. Come se, appunto, vendere il giornale non fosse affar suo ma dell’edicolante e, se va bene, dell’editore.
A poco possono servire le impressioni anglo-calviniste del lavorare giorno per giorno proponendo variazioni in pagina. Ancora meno – lo si dice rispettosamente – quelle feudo-baronali del «se trovi un buon direttore o caporedattore tienitelo stretto». Vero, dal basso si può cambiare o contribuire a farlo. Altrettanto vero, la costruzione fortemente verticistica delle redazioni italiane non ha una cura immediata, palingenetica. Ma dobbiamo trovare una via d’uscita per chi fa informazione visiva e per l’intero comparto industriale perché, nel caso si sia rimosso il dato, si trova e ci troviamo in una stretta drammatica, fra crisi economica e nuovi media non ancora compresi e governati.
Chi scrive è convinto – al pari del vangelo sndiano – che l’aspetto di un giornale sia già informazione. Che un aspetto conservatore può trasmettere autorevolezza, che un aspetto à la Independent dell’ultimo biennio può attrarre più giovani e donne. Ma chi scrive, soprattutto, è convinto di una cosa: il design, il layout, la veste grafica – lo si chiami come si preferisce e così i professionisti che concorrono a crearlo – servono a veicolare idee e ad attrarre lettori. In poche parole, a vendere di più.
Questa è la domanda che rimane – che è rimasta – sulle labbra mie e di altri felici partecipanti al seminario: in quale modo, anche attraverso la SND italiana, spiegheremo a editori e giornalisti che non siamo imbrattatèle ma partner nella costruzione di una informazione migliore e più efficace? Perché a questo – e lo aspettavamo da anni, e siamo felici, eccitati, entusiasti – deve servire l’associazione. Associamoci!
Un’ultima parola. Se trovarsi nella stessa stanza con Javier Errea, con Kris Viesselman o con Anna Thurfjell può emozionare; se guardare negli occhi Duenes e Porter – no, dico, Mark Porter: il Jonah Lomu del design editoriale – mentre ripetono come scolaretti i loro compiti a casa può non avere prezzo; mentre si gode la doppia presentazione dei gentilissimi Lana e Trujillo – l’ultimo l’ho chiamato Paco e non Francisco, neanche fosse mio cugino, e non mi ha preso a pugni – meritano una menzione speciale Rinaldi di Repubblica e il dinamico duo di IL composto da Walter Mariotti e Francesco Franchi. Pur nella differenza di prodotto – un quotidiano e un mensile, carta da rotativa e patinata, ogni notizia contro informazione selezionata – son venuti a consolarci: anche in Italia si può fare e, almeno in qualche caso si fa, bene. Grazie ancora.